Questa pratica ha informato il lavoro di Ingrid Bergman per anni, fino alla sua prima collaborazione con il neorealista italiano Roberto Rossellini nel 1949. Bergman ha girato film in America da Intermizo e con registi che sembravano tutti dare la priorità al suo “lato migliore”. Ma quando si è trasferita in Italia, si è trovata a lavorare con un tipo di regista completamente diverso.
La prima volta che il signor Rossellini ha messo giù la sua macchina fotografica per fotografarmi, ho detto: ‘Sai, il mio lato migliore’ e lui mi ha guardato e ha detto: ‘Il tuo lato migliore? Sto girando un film, e voglio dire, non mi interessa davvero! Sarò dalla parte che si adatta alle mie azioni. Penso che avesse ragione. Questo è corretto. Voglio dire, gli attori non dovrebbero essere così assurdi da dover sempre apparire al meglio. Dovrebbero cercare di essere bravi nel ruolo e interpretarlo nel modo più onesto possibile, cercare di dimenticare che aspetto hanno”.
È interessante notare come il concetto di lato positivo sia cambiato da allora – e come ovviamente non lo sia – e quanto sia permeato a Hollywood. La tendenza crescente di attrici poco lusinghiere per ruoli “coraggiosi”, come Charlize Theron in “The Beast” o Nicole Kidman in “Destroyer” o addirittura trasformare le attrici per un ruolo in un film biografico, è stato interessante da guardare. Il processo è particolarmente incentrato sulla credibilità della performance, ma è anche impossibile separarla dall’aspetto dell’attore. In un certo senso, la vanità ha sempre avuto un impatto nel cinema, che i registi ne siano consapevoli o meno. È solo una questione di come usare quella vanità per servire la storia.
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